Per garantire l'accesso alle nuove tecnologie non bastano i computer: occorre anche un'adeguata formazione.
Per gran parte dell'ultimo decennio, leader politici e sociologi si sono mostrati sempre più preoccupati della differenza tra coloro che hanno accesso a computer e Internet e coloro che non ce l'hanno.
A metà degli anni novanta, l'amministrazione degli Stati Uniti ha coniato una definizione per questa situazione di diseguaglianza informatica: digital divide. Con questo termine non solo si indicano le disparità tra nazione e nazione, ma anche all'interno di aree della medesima nazione. Guardando al panorama internazionale, nella maggior parte del continente africano meno dell'uno per cento della popolazione è on line.
Come prevedibile, questa discriminazione è strettamente correlata ad altri fattori economici e sociali.
Un italiano che naviga su Internet una volta al mese da una biblioteca di quartiere potrebbe essere considerato un non utente digitale, mentre un cittadino di un paese in via di sviluppo risulterebbe come utente on line. Questo deriva dai differenti criteri di valutazione adottati per definire il digital divide. Altrettanto erroneamente si può essere indotti a pensare che sia la mancanza di personal computer e connessioni Internet a determinare il gap.
Recenti campagne (pubblicitarie, più che educazionali) dapprima negli Stati Uniti e poi come sempre clonate in maniera nostrana, si sono concentrate sull'evidenziare i vantaggi del dare un computer (portatile negli USA, fisso in Italia) ad ogni bambino, senza però preoccuparsi di offrirgli una solida base per utilizzarlo. Questa concezione è nota negli ambienti accademici come determinismo tecnologico.
Essa si basa sull'idea che la possa la semplice presenza della tecnologia condurre ad un suo utilizzo comune e familiare e quindi innescare cambiamenti sociali. In virtù di questo intendimento si sono spesi milioni di dollari fornendo computer e accessi ad Internet in posti dove le necessità primarie sono di che mangiare o curare le malattie.
I peggiori fallimenti si verificano come sempre quando si cerca di affrontare problemi sociologici molto complessi concentrandosi soltanto sulla fornitura di equipaggiamento (d'altro canto, non riesco a liberarmi dall'idea che certe iniziative, non tutte ovvio, ma la maggior parte siano l'ambiguo intendimento di penetrare nuovi mercati utilizzando come facciata la filantropia e la beneficenza nei confronti dei meno abbienti: un popolo tecnologicamente evoluto domani comprerà bibite in lattina rossa e scarpe con il famoso baffo, jeans firmati e televisori al plasma...).
Come si conviene alle operazioni di marketing neo-colonialista cui sempre più spesso assistiamo, favorito dall'enorme connivenza della maggior parte dei mass media che sistematicamente vengono coinvolti in questo genere di operazioni (gli introiti pubblicitari sostengono numerose testate radio-televisive, non dimentichiamolo), l'iniziativa del National Institute of Information Technology, nel 1999 in India, venne annunciata a suon di fanfara come rivoluzionaria: storie fantasiose circolarono su Internet a proposito di come questi bambini imparassero da soli a usare il computer e avessero così abbattuto le barriere dell'anafalbetismo e di conseguenza della fame. Un esperimento per fornire l'accesso ad Internet ai bambini di una delle aree più povere della città di New Delhi.
I computer si trovavano all'interno di una cabina blindata, ma i monitor e i joystick e i tasti erano accessibili. Applicando l'approccio minimalista, il test non coinvolgeva né istruttori né insegnanti; permettendo l'accesso ai bambini senza restrizioni e durante tutto il giorno, si supponeva una migliore fruizione poiché più conciliabile con i ritmi dei bambini stessi.
L'amara realtà era invece che la connessione ad Internet era inefficiente, i computer erano letteralmente murati ad una parte anziché installati in una stanza su una più comoda scrivania e, ancora più sorprendente, i computer erano dotati di joystick e di tasti, non di tastiere... il che alla fine determinò che i bambini avevano appreso l'uso del calcolatore, ma di quel calcolatore, divenendo abili con il joystick e i tasti (proprio come una specie di bancomat nostrano ma senza il tastierino numerico: solo tre-quattro tastoni colorati...), ma senza programmi educativi e con contenuti prevalentemente in inglese (siamo in India, non dimentichiamolo, la lingua principale è l'hindi).
Insomma, si era prodotta una schiera di ottimi video giocatori... un fiorente potenziale mercato per consolle con logo a forma di X... e inutili quanto costosi giocattoli iper tecnologici che anche da noi imperano oramai in ogni dove spesso istigando alla violenza. In breve si giunse alla conclusione che l'educazione minimamente invasiva era nella pratica anche minimamente efficace. Un progetto alternativo, cosiddetto di informatica di comunità è il progetto Gyandoot, che nella lingua locale (siamo sempre in India), significa proprio trasmissione della conoscenza, è stato lanciato nel 2000.
Ancora una volta l'azione viene mirata su quella parte di popolazione che è vittima della malnutrizione e dell'anafalbetismo, ancora una volta si adotta la metafora del chiosco dove è possibile utilizzare i computer. In questo caso però è stata posta maggiore attenzione sullo sviluppo dei contenuti, studiati appositamente per questo progetto (che quindi era una specie di intranet più che un sistema per dare libero accesso ad Internet).
Tra i contenuti diffusi con il sistema Gyandoot, vi erano informazioni relative ai prezzi dei prodotti agricoli, campagne di informazione sanitaria oppure un servizio reclami, per fare presente i propri problemi (evidentemente questi messaggi venivano letti sul serio, contrariamente a quanto accade dalle nostre parti per molti URP et similia... perché i servizi governativi cominciarono a migliorare). Del personale a disposizione presso i chioschi era in grado di aiutare anche gli analfabeti o chi aveva poca dimestichezza con i computer.
La fornitura di tecnologia ben pianificata e a basso costo combinata con lo sviluppo dei contenuti e con campagne di educazione dirette allo sviluppo sociale è sicuramente un'alternativa valida a quei progetti che si limitano a piantare un computer come fosse una pianta da frutto ed aspettare che qualcosa cresca. Ancora una volta la tentazione di riportare paragoni nostrani, specie per certe iniziative di incentivazione tecnologica, in particolare per l'Italia meridionale, annunciate in pompa magna ad ogni scadenza elettorale, è fortissima; ma esula dal contesto. Questo secondo esempio dimostra come persone di differente estrazione sociale hanno accesso all'informazione digitale con modalità molto diverse tra loro, e di solito come parte di reti sociali che coinvolgono parenti, amici e colleghi. Il grado di istruzione fornisce una buona analogia: in esso non si presenta affatto questa divisione bipolare tra coloro che non possono in ogni caso e coloro che non possono. Esistono infatti livelli di istruzione per fini pratici, professionali, letterari e scolastici. E le persone diventano istruite non con la disponibilità fisica dei libri ma attraverso l'educazione, la comunicazione, i rapporti di lavoro, la famiglia e le reti sociali. In modo simile, la tecnologia può essere opportunamente sfruttata per aumentare e migliorare programmi e progetti sociali già esistenti.
Il punto fondamentale di tutta la questione è che non esiste alcuna diseguaglianza informatica a due valori né un singolo fattore che possa determinare - o risolvere - questa divisione. La tecnologia non esiste come variabile da inserire dall'esterno per ottenere certi risultati. Esiste solo nell'intreccio di sistemi e processi sociali. E, da una prospettiva politica, l'obiettivo di portare la tecnologia ai gruppi emarginati non serve semplicemente per superare una divisione tecnologica, ma piuttosto per favorire un processo di integrazione sociale. Il raggiungimento di questo obiettivo implica non solo i computer e i collegamenti ad Internet ma anche lo sviluppo di contenuti rilevanti nelle diverse lingue, la promozione dell'istruzione e la mobilitazione di supporti sociali e istituzionali. La tecnologia diventa così un mezzo, e spesso potente, piuttosto che un fine. E' importante notare che l'Amministrazione Bush sta tagliando i fondi ai programmi che promuovono l'accesso alla tecnologia. Qualcuno potrebbe obiettare che tali tagli sono giustificati poiché non esiste alcuna disuguaglianza informatica; questo ragionamento è specioso almeno quanto le semplicistiche soluzioni basate sul concetto di disuguaglianza.
Le strategie politiche non dovrebbero più essere concepite in termini di superamento di divisioni: la combinazione di forniture di tecnologia attentamente pianificate, contenuti rilevanti, educazione e supporto sociale migliorati possono incrementare il patrimonio che è già proprio della comunità.
In alcuni casi le risorse finanziarie per promuovere questi progetti sono fornite da chi ha un interesse più o meno celato: compagnie di software piuttosto che Governi miranti all'orientamento politico di determinate fasce della popolazione (e di consumatori). Anche se esistono eccezioni alla regola. Un'esperienza da portare ad esempio è quella condotta dal gruppo Prodigi: impegnato sul fronte internazionale con l'obiettivo di creare in Italia un organismo capace di sviluppare strategie efficaci e a largo raggio per combattere l'esclusione digitale e aprire la strada a nuovi percorsi di sviluppo autonomi e rispettosi delle diversità culturali.
In Tunisia hanno dei laboratori informatici reperendo i fondi con varie modalità: buona parte provenienti dall'autofinanziamento dei volontari e degli organizzatori, integrati da contributi di altre ONG (organizzazioni non governative) partner nel progetto. Questo progetto ha anche una valenza temporale inferiore ai primi due citati: nell'arco di sole tre settimane sono stati realizzati parallelamente tre differenti corsi di formazione, studiati per rispondere alle esigenze espresse dalle comunità locali e per garantire la sostenibilità dei laboratori al termine del progetto. Nell'orientare la formazione, infatti, è stata riservata maggiore importanza al ruolo che i diversi beneficiari avrebbero dovuto svolgere al termine dell'iniziativa piuttosto che alle loro competenze pregresse.
Infatti, rispetto ad un approccio più tradizionale, che avrebbe portato a dividere gli allievi tra un corso di "base" e uno "avanzato", a seconda del loro curriculum, è stato preferito un atteggiamento che attribuisse maggior peso ai compiti che ognuno avrebbe dovuto svolgere all'interno della proprià comunità, una volta formato. Quindi, così come l'esperienza di Gyandoot, il contatto con il territorio si è rivelato un aspetto essenziale sia per lo svolgimento delle attività che per il futuro dei laboratori.
Un ulteriore aspetto interessante dell'iniziativa Prodigi è l'attenzione particolare posta nei confronti del software open source. Due esperti di software libero tunisini sono stati coinvolti fin dall'inizio e grazie ad un seminario in arabo sul software libero (quindi finalmente la lingua locale compresa dai destinatari dell'iniziativa, non il solito francese o inglese) ha consentito di mettere in contatto realtà che probabilmente non si sarebbero mai incontrate e rappresenta tutt'ora una garanzia di sostenibilità del progetto da prendere ad esempio per iniziative similari.
Ad esempio è stata posta particolare attenzione anche alla localizzazione delle tastiere e del software utilizzato, adottando il francese, comunque la seconda lingua in Tunisia, oppure l'arabo, dove possibile. Infine, un aspetto che merita un approfondimento a parte è quello che sempre più spesso, per iniziative di questo genere, ma non soltanto, alla decisione di introdurre l'uso del software libero si affianca quella di riutilizzare i calcolatori e le risorse tecnologiche dismesse o altrimenti destinate a divenire rifiuti speciali.
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